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La responsabilità del pensare e dell'agire

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jack finger98
view post Posted on 15/11/2011, 17:49




Dove nasce la responsabilità per l’altro? “Sono forse io il custode di mio fratello?” rispondeva Caino a Dio che gli chiedeva dov’era suo fratello Abele. È una domanda che, ad un certo punto, risuona in tutte le relazioni umane: “Sono forse io il custode di mio fratello, o di mia madre o di mio figlio?”, “Sono forse io il custode dell’altro, chiunque egli sia?”. E ancora: “Siamo custodi l’uno dell’altro?”. Cosa implica la custodia nel rapporto umano?

Chi è impegnato in una relazione autentica con l’altro, prima di ogni cosa ne «riconosce» l’unicità, come un essere dotato di senso (di un proprio senso unico) rispetto alla propria vita. La priorità della relazione etica - il primato dell’etica e la critica dell’ontologia - è un concetto chiave del pensiero di Emmanuel Lévinas, uno dei più significativi filosofi del mondo contemporaneo, la cui influenza ed attualità non cessa di lievitare. L’incontro con l’altro è un evento etico che fa uscire l’io da sé. “La soggettività - scrive (Etica e Infinito) non è un per sé, ancora una volta essa è inizialmente un per altri”. Uscire da sé è occuparsi dell’altro e della sua sofferenza, della sua fame e della sua sete, e della sua morte, prima di occuparsi della propria morte, è approssimarsi, avvicinarsi all’altro nell’asimmetria dell’assoluta gratuità. Uscire da sé è essere custode dell’altro cioè essere responsabile dell’altro.

Caino risponde a Dio “Sono forse io il custode di mio fratello?”. “In questa risposta di Caino - nota Lévinas - manca solo l’etica, vi è solamente ontologia: io sono io e lui è lui. Noi siamo esseri ontologicamente separati” (Tra noi. Saggi sul pensare all’altro). Uscire da sé è essere attenti: “Essere attenti significa riconoscere la signoria dell’altro, ricevere il suo ordine, o più esattamente, ricevere da lui l’ordine di dare ordini” (Totalità e Infinito). L’incontro con l’altro mette dunque in questione la struttura monolitica dell’io, lo disincanta o meglio, lo disubriaca: “Il termine disubriacatura (…) - scrive Lévinas - mi sembra più forte che disincanto e vuole indicare la forza del risveglio etico che è più forte dell’ubriacatura del sapere” (Tra noi. Saggi sul pensare all’altro).

Cos’è dunque l’unicità dell’io? “Io - sostiene Lévinas - sono uno e insostituibile - uno in quanto insostituibile nella responsabilità” (Altrimenti che essere o al di là dell’essenza). Pietro Birtolo, docente di Bioetica all’Università del Salento, commentando il concetto di responsabilità di Levinas nel testo “La responsabilità del pensare: scritti in onore di Mario Signore, a cura di Laura Tundo, Liguori Editore”, osserva “In questa responsabilità per altri il soggetto è insostituibile, eletto, perché nessun altro può rispondere al suo posto: la responsabilità non è un ruolo o una funzione che, in quanto tali, possono essere compiuti da chiunque; nella responsabilità non esistono deleghe. Qui il senso della citazione di Dostoevskij «Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutti ed io più degli altri»(Fratelli Karamazov), citazione che ricorre spesso nelle opere di Lévinas”.

“Non è certo un caso che il termine «responsabilità» trovi il suo alveo etimologico nella parola «risposta». La responsabilità cos’è se non un rispondere alla domanda - manifesta o latente - che l’Altro ci pone, chiedendoci di prenderci cura di lui? Forse non c’è termine più adatto al campo sociale di responsabilità” ammette Patrizia Cappelletti, ricercatrice presso la facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano, nella postfazione del libro “Natural Helpers” (a cura di Fabio Folgheraiter e Patrizia Cappelletti, Erickson, 2011) che raccoglie storie di vita intrecciate sul filo di questo vincolo tra domanda e risposta. L’altro ci interpella, ci chiede di «esserci», di assumerci delle responsabilità, di dare quella «risposta» che solo noi possiamo dare, e senza la quale l’altro sperimenta la solitudine, l’abbandono, la miseria o la morte.

I risultati di alcune ricerche nel campo della psicologia sociale indicano che l’attivazione di un comportamento di aiuto fa parte di un processo decisionale, una scelta consapevole tra diverse e a volte contrastanti opzioni. Colui che non può restare indifferente varca la frontiera decisionale tra inerzia e azione intervenendo a favore della persona (o persone) in difficoltà. In accordo alla teoria dello sviluppo morale elaborata da Martin Hoffman, professore emerito di psicologia alla New York University, nell’individuo adulto l’obbligo etico ad aiutare qualcuno in difficoltà nasce spontaneamente dall’interno come espressione di principi interiorizzati di cura, di giustizia. Tuttavia “l’empatia trasforma i principi morali in cognizioni prosociali calde: rappresentazioni cognitive cariche di affetto empatico, e pertanto di forza motivazionale” (Martin Hoffman, Empatia e sviluppo morale, il Mulino Saggi).

La «sofferenza empatica» (l’affetto empatico suscitato direttamente dalla vittima) costituisce dunque la motivazione primaria che spinge all’azione, non consentendo di sottrarsi dalle responsabilità, e quasi «obbliga» ad intervenire concretamente in aiuto. E cosa prova chi non ha aiutato sapendo che avrebbe potuto? Lo psicologo Albert Bandura individua dei dispositivi mentali di «sicurezza» che realizzano una sorta di disimpegno morale e liberano dal senso di autocondanna. Tra questi giocano un ruolo importante: la diffusione della responsabilità (ci si sente meno in dovere di intervenire qualora si presume che siano presenti e disponibili altri potenziali soccorritori); la distorsione delle conseguenze (spesso non ci si rende conto della gravità della situazione); le attribuzioni di colpa (attribuire a chi è in difficoltà la colpa del’accaduto, con frasi del tipo “è andato da solo a cercarsi i guai”).

Diverso il caso di chi ad un certo punto è chiamato ad assumere su di sé una responsabilità che intendeva eludere. È il caso di Roberto Cuni (una delle voci narranti del libro “Natural Helpers”), un elettricista cui l’incontro-scontro con un problema (l’alcolismo e i disturbi comportamentali del fratello) porta ad accettare una responsabilità che in un primo momento voleva delegare ad altri. Roberto è spiazzato davanti alla domanda del direttore della clinica dove vuole «consegnare» il fratello: “Allora , mi dica, di chi è il fratello?”. A partire dalla prima assunzione di responsabilità (incoraggiata e sostenuta dal direttore della clinica che coglie in Roberto insospettate potenzialità di aiuto), l’uomo, pur provato dalle difficoltà personali e familiari, diventerà in grado di assumersi altre responsabilità, creando e animando i Club per alcolisti in trattamento, corsi di formazione, fino all’esperienza dei gruppi di Auto/Mutuo Aiuto e a quella più recente nel movimento del «fare assieme» - l’approccio alla salute mentale sperimentato dal Servizio di salute mentale di Trento - in cui operatori sanitari, utenti e familiari esperti sono impegnati nella costruzione di percorsi di salute mentale. Rispondere alla domanda di aiuto è qualcosa che sconvolge l’esistere di chi è beneficiario e di chi non si sottrae alla chiamata, richiedendo un riposizionamento della scala di valori essenziali, l’instaurarsi di nuove e più profonde relazioni, l’aprirsi ad uno scambio sociale basato sulla fiducia. E’ un investimento sull’altro, sul mondo, sulle possibilità umane.
 
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Baba_Boy
view post Posted on 16/11/2011, 14:59




bello =) (non ho letto quasi niente...lo ammetto mi sono fermato alla 7 parola)
 
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1 replies since 15/11/2011, 17:49   51 views
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